Musicus Suavissimus

Si ripropone, nel IV Centenario della morte di Tomàs Luis De Victoria, il testo delle riflessioni presentate da Padre Vittorino Joannes in occasione dell’esecuzione dei Responsori per la Settimana Santa del Coro dell’Università Cattolica, diretto da Angelo Rosso, avvenuta il 30 marzo del 1990 nella Basilica di Sant’Ambrogio di Milano.

Fernando-Vittorino Joannes

Officium tenebrarum

Responsori per la Settimana Santa
di Tomàs Luis De Victoria

La “gravitas” e la “suavitas” del Maestro Avilano

I contemporanei lo chiamano volentieri “musicus suavissimus”. Eppure Tomàs Luis De Victoria è polifonista severo, può essere considerato un esponente della grande polifonia romana; pur senza essere un allievo diretto del Palestrina, che a Roma egli conosce, è tuttavia un autentico discepolo della “scuola romana” per tutto ciò che concerne la “chiarificazione” musicale e liturgica della grande eredità contrappuntistica medioevale sfociata nelle possenti architetture fiamminghe.

Perché dunque è amato e inteso come “musicus suavissimus” quando, pur considerandolo da un certo punto di vista come “rivale” del Palestrina, appartiene chiaramente a quel mondo e a quello stile? È legata alla risposta a questa domanda la valutazione della personalità musicale propria di Tomàs Luis De Victoria, ma anche il nostro atteggiamento nel disporsi ad ascoltare ed intendere il suo messaggio artistico, ancora così vivo e penetrante e commovente.

Bisogna risalire subito (poi ne vedremo i tratti biografici essenziali) alla sua “anima”. Il De Victoria, e questo lo sappiamo da sue confessioni inequivocabili e da precise scelte sicure entro gli scarni dati biografici che di lui possediamo, è sacerdote per intima, assoluta, irresistibile vocazione e non per tradizione o convenienza come accadeva facilmente a musicisti ed artisti del suo tempo. Il De Victoria sente prepotentemente la condizione sacerdotale come raccoglimento, contemplazione, vissuto misticismo; quel misticismo sofferto e a volte persino dolorosamente sensuale che appare nella vita e negli scritti della grande conterranea e contemporanea del musicista: Teresa d’Avila.

E la musica, accanto al dichiarato desiderio sempre accarezzato di tutto abbandonare per dedicarsi alla pura contemplazione, rappresenta per Tomàs Luis l’estrinsecazione più pura di questa condizione di vita. Da qui, per lui padrone assoluto della tecnica – che lo pone accanto a Palestrina o al Lasso – 1’assunzione esclusiva del testo sacro come un messaggio di profonda intensità da rivivere ogni volta con estenuata compartecipazione, con una spiritualità che si veste di accenti intimamente patetici da raggiungere a volte una intensa, sebben contenuta, drammaticità. Accanto e dopo la levigata purezza sonora del Palestrina la musica del De Victoria – ugualmente semplice e lineare – è arricchita da un appassionato senso del dolore e della gioia, dello stupore o della serena ma fremente contemplazione. Tutto questo è raggiunto senza che mai si incrini la architettura classica del discorso musicale e persino con accenti di indubbio arcaismo; discorso attentissimo al rigore del contrappunto, ma sempre scosso da fremiti dissonanti.

Dunque: la “suavitas” così amata e ammirata dai contemporanei e così “moderna”, così vicina ed emozionante per noi, e questo “colore” drammatico, interiore, penetrante in scavo entro la “gravitas” della limpidezza apollinea; è la modulazione estrema del “colore” entro 1’atmosfera tersa, lo stile omogeneo ed essenziale, il trionfo in piena luce della musicalità plastica della polifonia.

In questa “suavitas” che penetra la “gravitas” polifonica della gran scuola è possibile individuare il più significativo contributo che la musica “spagnola” del De Victoria ha dato a quella europea: un contributo sia musicale che culturale, dal momento che questi due aspetti sono inscindibili allorché si tratta di personalità così prepotenti come quella dello spagnolo De Victoria ed è in questa “suavitas” fatta di colore intenso e raggiante nella vasta gamma dei sentimenti da esprimere che va ravvisato il fascino emotivo e la immediata comunicatività che trascina noi oggi all’ascolto della musica di Tomàs Luis De Victoria.

Fuoco di Castiglia e limpidezza architettonica di Roma

L’autore della “Crònica de l’Escorial” narra come Filippo II aspettasse con impazienza 1’arrivo di nuove musiche dall’Italia, sino al punto (sorprendente assai per un personaggio come Filippo II!) di rimandare 1’udienza di ambasciatori per farsi leggere partiture appena arrivate con “correo reàl especial” da Roma. Quelle partiture erano di mano di un giovane spagnolo che stava a Roma: Tomàs Luis de Victoria. E quel giovane musicista lo aveva mandato a Roma per studiare, con una sua sovvenzione, lo stesso re Filippo II.

Filippo II lo aveva mandato a Roma all’età di 15 anni, e l’età dimostra le precoci doti del musicista, dopo che Tomàs Luis aveva esercitato 1’ufficio di fanciullo cantore nella Cappella Musicale della Cattedrale di Avila dov’era nato verso il 1548. Soltanto due anni prima la sua concittadina Teresa de Agumada e Cepeca aveva lasciato le mura che stringono la cittadina per fondare il primo Carmelo Riformato giù nella campagna sottostante. Il ragazzo avilano cominciava a respirare quell’aria ardente di pensiero e di vita che avrebbe scosso dalla sua gran fiamma il suo secolo, tanto ricco da essere detto “El Siglo de Oro”. È il secolo che darà da solo una Teresa d’Avila, un Giovanni della Croce, Ignazio di Loyola, e Lope de Vega, Calderon de la Barca e Tirso de Molina.

Ma mentre è fanciullo cantore, conosce nella Cattedrale di Avila un repertorio (come in tutte le cattedrali spagnole) polifonico formato non solo da opere di compositori spagnoli dell’importanza di Cristobal de Morales, ma anche di compositori di tutta Europa, e in particolare dei fiamminghi che facevano parte della Cappella dell’Imperatore. Quando è mandato a Roma, non fa che seguire la tradizione dei musicisti spagnoli i quali consideravano fondamentale il tirocinio in Italia. A Roma, dal 1565, studia al Collegium Germanicum fondato un decennio prima dallo spagnolo Ignazio di Loyola, e dove ha come condiscepoli i due figli del Palestrina. Quattro anni più tardi è organista nelle due chiese spagnole di Roma, quella di Santa Maria di Montserrat (catalano-aragonese) e quella di San Giacomo degli Spagnoli (castigliana). Nel 1571 è maestro di cappella del Seminario Romano, succedendo al Palestrina, che era passato a dirigere la Cappella Giulia.

Conosciamo con certezza la data della sua ordinazione sacerdotale: 28 agosto 1575. Tre anni più tardi lascia il Collegium Germanicum, e diventa uno dei dodici cappellani addetti alla chiesa di San Girolamo della Carità. È un momento fondamentale per il De Victoria, poiché a San Girolamo c’è Filippo Neri, con il quale stringe profonda amicizia; e a San Girolamo si sta sviluppando 1’Oratorio romano, con tutto il suo fervore spirituale, la sua attività culturale, attirando grandi nomi della musica dell’epoca: Anerio, Animuccia, Isorelli, Ancina, lo spagnolo Soto de Langa.

La sua musica è già ben conosciuta, le edizioni si susseguono, sontuose e con dediche a personaggi di spicco che si ritengono onorati delle dediche dello spagnolo. Tra gli illustri dedicatari spicca il re Filippo II, ed è appunto nella dedica a Filippo II del 1583 che il De Victoria esprime chiaramente il desidero di ritirarsi a vita contemplativa, e persino di abbandonare la composizione.

Forse il testo della dedica è soltanto lo spiraglio che lascia intravvedere un laborioso travaglio interiore. Ritorna infatti in Spagna nel 1587, ma cinque anni più tardi è nuovamente a Roma e si occupa di altre edizioni della sua opera musicale. Poi è il ritorno definitivo in Spagna, presso il monastero delle Clarisse dette “Descalzas Reales” poiché il monastero è fondato dalla imperatrice Maria e accoglie numerose monache provenienti dai vari rami della famiglia reale, e diventa un crocevia importante di arte e cultura europea e non solo spagnola. Il monastero è tuttora vivo, e da esso provenivano (come esempio sintomatico di un’arte intimamente connessa con uno stile di spiritualità) i famosi “Ninos Jesus” esposti recentemente qui a Sant’Ambrogio.

Tomàs Luis De Victoria, dunque, dalla sua Castiglia a Roma, a Madrid, accumula le esperienze più vive e conosce le varie “anime” del fecondo momento culminante della Riforma Cattolica, e le convoglia a creare 1’anima intima della sua musica. A Madrid infatti quando muore 1’imperatrice Maria, dà l’opera più alta e significativa della sua ricerca e del suo spirito nello “Officium Defunctorum” (del 1605). E in quel monastero si spegne il 27 luglio 1611.

Arte antica e splendida della modulazione delle voci

Così possiamo comprendere bene la sostanziale differenza che separa il musicista avilano da tutti i polifonisti della sua epoca, fatta eccezione per il suo immediato precedessore, il sivigliano Cristobal de Morales: De Victoria non compose mai musica profana, ma soltanto musica liturgica. Il fatto è di fondamentale importanza, poiché in tal modo il De Victoria evitò 1’influenza estetica delle forme nate dal madrigale della tarda rinascenza, pur inserendo la sua ricerca personale nelle strutture polifoniche classiche.

È infatti la personalità di questo sacerdote-musicista, e l’affinarsi di tale personalità nei momenti e movimenti più pregnanti della Riforma Cattolica tra Roma e la Spagna, a spiegarne l’intimo segreto della sua musica. È possibile coglierlo in un testo tratto dalla dedica che egli appone all’edizione romana del 1581 della raccolta “Cantica Beatae Virginis Mariae” offerta al cardinale Michele Bonelli, che è nipote di Pio V e suo segretario di Stato, nonché strumento del rigido Papa riformatore per la sua azione.

“Nulla vi è di più utile di quest’arte – scrive il De Victoria – che esercitando la sua azione sullo spirito per mezzo dell’udito, investe tanto l’anima quanto il corpo. Considerando inoltre l’antichità e lo splendore di un’arte, ve ne è forse una più ammirevole di quella che ha per fine la lode del Signore, ed una più antica di quella esistente negli spiriti celesti, prima che nell’uomo? Ma disgraziatamente, come succede quasi sempre, le cose nate da un buon principio degenerano verso usi depravati. Uomini malvagi e corrotti abusano della musica come di un eccitante per meglio godere dei piaceri terreni, invece di elevarsi attraverso essa a Dio, e alla contemplazione delle cose divine. Per quanto mi riguarda, io lavoro soltanto, grazie a Dio, per ottenere che la modulazione delle voci (designo con queste parole 1’arte del canto) sia esclusivamente diretta verso il fine e allo scopo per il quale fu originariamente creata: Deo Optimo clarissimo.

Potrebbe anche sembrare un ragionamento pio ma innocuo, e persino fuorviante se non corrispondesse da una parte alla vita esemplare e spiritualmente intensa dell’autore, e dall’altra alla innegabile riuscita concreta della sua opera artistica sorretta da quelle idee e convinzioni. D’altra parte, il testo del De Victoria, analizzato attentamente, non fa che apparire come il rapido sommario non soltanto di una ideologia intrinseca agli ideali della Riforma, ma anche di più ampie trattazioni teoriche, filosofiche e teologiche, sul significato, sull’origine, sulla funzione della musica. Il De Victoria applica tutto ciò alla musica liturgica, la sola che lo interessi, e riesce a creare la sua altissima sintesi musicale, pervasa da una passione mistica intensa e sobria, espressiva al massimo delle possibilità tecniche eppure intimamente inestricabili dalla sua funzione esclusivamente liturgica.

IL GRANDE AFFRESCO DELL’“OFFICIUM HEBDOMADAE SANCTAE”

È dal mondo di queste convinzioni, dallo spirito che si affina e approfondisce negli anni in cui è accanto a Filippo Neri, che il musicista castigliano trae la monumentale opera “Officium Hebdomadae Sanctae”. È edita infatti a Roma nel 1585, due anni dopo la sua confessione a Filippo II di volersi ritirare e persino mai più comporre, e due anni prima del suo ritorno in Spagna. Da altri frammenti del De Victoria è possibile intuire che cominciano a farsi vivi in lui il ricordo e la nostalgia per la terra natia, piena di ricordi d’infanzia, e lo tormenta il ricordo di quei paesaggi deserti attorno alla sua Avila, assorta e come ripiegata in sé. Ed effonde, in questo spazio di nostalgia abitato dalle convinzioni estetico-spirituali, un grande affresco del dolore e dalla morte, di lamento e di speranza. Lo spirito “castigliano” del “maestro romano” si esprime in una tecnica compositiva magistrale, rileggendo il testo musicale dell’“Officium” classico gregoriano, inserendovi un’accentuata policromia sensibile a influenze popolari della sua terra, non ultimi gli accenni delle celebri “saetas” lanciate da struggenti voci femminili al Cristo sofferente e a Maria addolorata nelle fantasiose e drammatiche ricostruzioni della Passione, e a loro volta risalenti a memorie musicali arabe colte dai lunghi secoli di presenza islamica in terra spagnola.

La solida struttura simbolica dell’affresco

II grande affresco sonoro dell’“Officium” è evidentemente opera simbolica, sia degli intenti del musicista circa i fini di tutta la sua opera artistica, e sia della cifra interiore espressiva della sua musica.

È l’unica opera dedicata non ad un mecenate ma alla Santissima Trinità. Non è una particolarità esteriore, ma il sogno preciso della personalità del De Victoria: egli ha l’ardire di scegliere come destinatario di un’opera tanto impegnativa qualcuno che non può offrirgli nulla in cambio, se non in termini puramente spirituali.

L’“Officium” è concepito come un grande affresco poiché le parti rispondono alla struttura ciclica dei riti liturgici della Settimana Santa, partendo dalla Domenica delle Palme, ma fermandosi al Sabato Santo. C’è dunque nel grande affresco ciclico la particolare sensibilità “castigliana” dell’autore. In Castiglia, terra dal clima freddo, la Pasqua è celebrata con meno fasto rituale della Settimana Santa, infatti il dramma della Passione, e soprattutto i “lamenti” del Cristo, sono sentiti con la profonda sensibilità umana di partecipazione personale al dramma del Cristo. È tema e clima emotivo che si traduce pittoricamente nei cicli della “Via Crucis”, di cui possiamo ammirare un’ampia raccolta nel grande museo di Valladolid, e nelle opere di El Greco o di Luis de Morales, e che il De Victoria, attingendo al cocente senso di nostalgia della sua terra e usando l’alta lezione compositiva polifonica romana, traduce nel testo musicale innalzando una visione “regionale” ad un discorso universale.

L’“Officium” comprende 37 titoli, fra i quali due Passioni, di Matteo per la Domenica delle Palme, e di Giovanni per il Venerdì Santo; l’antifona che apre i riti con la processione delle Palme, il Pueri Ebraeorum; due mottetti (di uso più libero nello svolgersi dei riti) O Domine Jesu Christe e Vere languores nostros; viene poi la serie delle nove Lamentationes di Geremia, tre per ognuno dei Mattutini del Triduo Sacro; gli inni Tantum ergo per il Giovedì Santo e Vexilla Regis per 1’adorazione della Croce del Venerdì Santo, accanto ai cosiddetti Improperia, il Popule meus. Un altro inno Vexilla Regis completa l’affresco, ed è come la firma stilistica posta dal musicista a tutta 1 ‘opera, poiché è da lui indicato “more hispanico”, e cioè è intessuto sulla “cantilena mozaraba” che è il canto dell’antica liturgia ispanica ancora in uso al tempo del De Victoria (e tuttora nella Cattedrale di Toledo).

Le due Passioni di Matteo e Giovanni rivelano una delle caratteristiche più importanti di tutta la raccolta: la musica delle Passioni è rigorosamente composta in funzione dell’azione liturgica con attenzioni palesi e minuziose dell’autore alle particolarità del rito. E dimostrando la sua alta capacità di trarre l’ispirazione musicale proprio dal dettato liturgico. E in questo senso (valore che andrebbe oggi attentamente studiato) 1’opera del De Victoria si propone come esempio di funzione liturgica della musica, come criterio assoluto interpretativo che va al di là degli stessi condizionamenti tecnici, stilistici ed estetici di un’epoca.

Appare evidente che il lato tecnico-estetico di questa musica dell’“Officium”, così intimamente legata alla espressione verbale e a quella rituale dello svolgimento del rito, è meno importante del valore espressivo e drammatico anche se proprio il condizionamento posto dalla parola e dal rito che la espone dà la misura delle capacità poetiche dell’autore, della penetrazione intensa che egli sa realizzare nel linguaggio rituale d’insieme, complesso e delicatissimo da interpretare nel suo intimo equilibrio.

Le luci e i colori dell’affresco

Per il De Victoria, il testo diventa un percorso obbligato, da rispettare nelle sue minime sfumature, per ottenere il massimo della espressività. Così le due Passioni sono opere potentemente e realisticamente espressive, lasciano poco spazio alle effusioni liriche; l’autore sembra limitarsi ad una “lettura” del testo, imbrigliando la sua fantasia; ma ciò gli permette di “entrare” (con un intuito “esegetico” sicuro e sorprendente per i suoi tempi) nella struttura letteraria della narrazione evangelica che, come oggi è stato meglio chiarito, ha una funzione “kerigmatica” (annuncio del contenuto dei fatti) più che descrittiva dell’accadimento esteriore. Il musicista realizza così una semplice ma espressiva declamazione del testo latino della Passione; ma in questa scelta voluta di sobrietà è ravvisabile il progresso che il De Victoria realizza nel rigore religioso trasfuso in una “ortodossia” artistica”.

Sul tema liturgico, il musicista fa ricorso soprattutto allo stile verticale più vicino a quello del “falsobordone” che a quello specificamente polifonico sapientemente contrappuntato. È la scelta stilistica che applica in altra forma ai due testi del salmo “Miserere” e del cantico “Benedictus”; il primo a conclusione di ognuno dei tre “Mattutini” del Triduo Sacro, quando (secondo l’esigenza liturgica) è cantato “voce protracta”, “recto tono”, e perciò 1’autore struttura in forma isometrica la sovrapposizione armonica delle voci, così da ottenere un sottofondo meditativo mormorato nella oscurità oramai scesa nel tempio; il secondo conclude l’Ufficio delle Lodi che segue al Mattutino, è cantico mattutinale e perciò è composto su tonalità che riproduce il “modus primus” comandato dalle tre antifone rispettive dei Tre Giorni, dando così al maggiore sviluppo contrappuntistico il vigore di un cantico finale che prelude alla luce mattutina pasquale della speranza e della vita che rinasce.

Per gli “Improperia” composti su testi di “lamentazioni” dei Profeti e che ritualmente devono accompagnare il lento incedere dei celebranti e del popolo verso l’adorazione della Croce, scandita da tre prostrazione da compiere lungo la navata del tempio prima di chinarsi al bacio del Crocifisso, il De Victoria riprende in modo accentuato lo stile verticale del “falsobordone” in valori però protratti così che il rimprovero “Popule meus quid feci tibi?” sia una declamazione proveniente non dal coro che canta, bensì da un Personaggio del dramma (il Cristo che si lamenta dalla Croce) che espone un rimprovero ma con accento mite e doloroso; perciò è una pura declamazione in cui gli accordi consonanti sono rotti solamente dalla progressione movimentata che gonfia le parole della “perorazione retorica” finale: “responde mihi!”; il lamento però è interrotto dalle formule ieratiche del “Trisagio”: “Agios o Theos, Agios Ischyros, Agios Athanatos, eleison ymas” (“Santo Dio, Santo Forte, Santo Immortale, abbi pietà di noi”) che, derivanti dall’uso orientale approdato a Roma e stilate musicalmente sull’originale melodia bizantina trascritta in neumi gregoriani nei libri liturgici latini, fanno assumere all’Officium  della adorazione (“Proskynesis” in greco, cioè profonda prostrazione) il senso non di un dolorante ufficio di Passione ma di esaltazione del “Mysterium Crucis”. Sono attenzioni raffinate del musicista-liturgo, esempio altissimo di come sia possibile e necessario, tradurre musicalmente la musicalità implicita nello svolgersi della “partitura liturgica” del rito.

II ciclo ternario cosmico-divino dell’affresco

All’interno di queste attenzioni finissime del compositore i diciotto “Responsoria” emergono in tutta la loro ricchezza di presa musicale drammatica, si pongono come cerniera che lega strettamente tra loro in cifra musicale il significato degli altri testi che compongono 1’ufficiatura liturgica.

E, per la loro posizione nella struttura del rito, per i testi che li compongono, per la forma musicale che hanno assunto nell’opera del De Victoria, divengono la struttura portante del “clima” della “poetica” d’insieme con la quale il musicista-liturgo spagnolo intende tutto il complesso del suo “Officium”. Essi impongono all’“Officium” dei “Tre Giorni” il significato simbolico ciclico dell’arcano numero tre: i tre giorni della Passione sofferente, il Terzo Giorno della Resurrezione, segnando all’interno del tessuto drammatico delle “Tenebrae” lo schema interiore della Trinità che soffre nell’Uomo-Cristo, “Uno della Trinità” secondo la più antica teologia della Redenzione, e portando a tensione entro lo svolgersi del dramma di dolore la volontà divina redentrice della “Trinità salvifica” proiettata verso il “Terzo Giorno secondo le Scritture” del mattino pasquale.

È una “tensione” intima alla esposizione musicale di ognuno dei “Responsoria”, ognuno è costruito infatti in tre momenti: esposizione del “tema” letterario (il testo proveniente da “Salmi di lamentazione” che vengono posti dalla “finzione” ermeneutica della liturgia in bocca al Cristo, secondo il metodo risalente alla più antica tradizione patristica della “interpretazione cristologica” del Salterio); l’inciso che chiarisce maggiormente il centro focale del mini-dramma costituito dal singolo Responsorium; la ripresa finale dell’ultimo inciso della prima esposizione. L’enunciazione melodica percorre perciò tutta la composizione cosicché ogni Responsorium costituisca a sé lo svolgersi di uno degli aspetti interiori del dramma intimo all’anima del Sofferente che canta il suo dolore interiore; ma la spezzatura e poi la saldatura contrappuntistica delle voci (distribuita a tre o a quattro nei successivi tre momenti dialogici del Responsorium) che si rinchiudono rapidamente nel finale, conferisce ad ogni Responsorium il valore d’espressione conchiuso in sé, e allo stesso tempo aperto verso la successiva “meditazione musicale” del successivo Responsorium che verrà a rompere come un golfo lirico-drammatico la lenta e monotona cantilena della “Lectio” esplicativa-catechetica tratta da opere dei Padri a commento dei Salmi scelti nell’ufficiatura tra quelli “profetici” della Passione di Cristo.

Così i “Responsoria” segnalano fortemente il concetto ciclico dell’“Officium” , inteso come una classica “Tragoedia” tripartita (tre giorni, tre mattutini tre notturni, tre Salmi, tre lezioni, tre responsori, e i loro rispettivi multipli) nella quale si svolge entro il numero simbolico del tempo la tragedia meta-temporale della lotta tra la vita e la morte. I “Responsoria” scandiscono con la funzione del “Chorus” nella tragedia antica, i momenti interiori del personaggio principale e delle reazioni e interpretazioni dei compartecipanti che diventano “concelebranti” di un’unica azione.

Allo stesso tempo i “Responsoria” hanno la funzione di stringere drammaticamente, come in un solo punto, in una concentrazione tematica strutturata letterariamente e musicalmente, i “tempi” della durata della tragedia, concentrandola in una visione d’insieme, ottenendo un unico punto di vista “teologico” su tutta l’ufficiatura, radunando stilisticamente in un’unica intenzione i singoli frammenti espositivi ricorrenti mano a mano nello svolgersi del dramma liturgico coinvolgendoli tra loro entro la visione sintetica di un “tempo” ideale che riscatta la “durata” rituale; e rispondendo in tal modo al genio proprio del dramma liturgico che tende sempre ad esporre entro i limiti frammentari della successione temporale il valore extra-temporale o meta-temporale del “Mysterium” celebrato.

Sintesi  e Dramma nell’“Edificio della Memoria” dell’affresco

Tale “concentrazione sintetica” è ottenuta in modo del tutto esemplare dal De Victoria mediante scelte precise. Attinge anzitutto alla frase melodica del Responsorium come è nel “Graduale Romanum”, facendola intendere con sufficiente evidenza, ma poi diffondendola alle singole voci che la rielaborano nella trama armonica e nella scansione contrappuntistica in modo da estrarre dalla severità melodica del testo gregoriano le virtualità espressive contenutevi “in nuce”, sia nell’evidenza del disegno melodico che nella intenzionalità del “modus” prescelto; il procedimento ha un sottofondo intenzionale: da una parte la volontà di tenersi inserito nel clima “tradizionale” della espressione classica (sia musicale che teologica) del rito esprimentesi nel canto; e dall’altra, esponendo successivamente il “tema dato” in formula polifonica, l’intento di costruire mediante le voci una “memoria” articolata, quasi dilagante nei successivi colori suggeriti dalle emozioni colte nell’originale fraseggio austero racchiuso entro la solida struttura severa del canto gregoriano.

Ma, quasi per non disperdersi coloristicamente dall’origine della “memoria” cui il musicista attinge, e come per creare invece un “edificio della memoria”, il De Victoria stringe il complesso di tutti i diciotto “Responsoria” entro un unico ambito di modalità, corrispondente al “modus quartus” del sistema modale gregoriano, detto dagli antichi teorici “modus gravis protractus”, o anche “modus doricus”; esso infatti permette già nella scrittura modale gregoriana possibilità di sviluppi armonici inerenti alla “corda di recita” del “modus”, così che tradotto in tonalità offre possibilità di sviluppi cromatici intensi, dai colori densi e oscuri, ma che si aprono su accensioni armoniche molto ricche pur conservando il clima originale di intensità pensosa; la celebre “Fantasia Cromatica e Fuga” in re minore BWV 903 di Johann Sebastian Bach attinge appunto la sua straordinaria resa cromatica a questa fonte, come pure la grande “Toccata dorica”.

Con il clima di una sola modalità, il De Victoria ottiene così la coesione dell’opera, la stringe tematicamente e coloristicamente attorno ai punti nevralgici dei “Responsoria” e poi supera un possibile appiattimento melodico elaborando le figure al’interno del singolo brano, collegandolo alla modalità d’insieme ma penetrandolo con una specie di ondulazione finissima della frase musicale articolata sia nella dinamica che nel ritmo sulla soggiacente frase letteraria.

Perciò, all’interno del ciclo dei diciotto “Responsoria”, il De Victoria attinge all’inciso melodico gregoriano, poi lo distende in frammentazione imprevedibile dei valori dilatati o ristretti, per poi iniziare la frase musicale con una “arsis” la quale si sviluppa nella intensificazione della voce (procedimento attinto alla prassi con cui si eseguono lo “scandicus” incrociato con il “porrectus flexus” nel canto gregoriano), e che si spegne con diminuzione dinamica nella “thesis” di riposo (come avviene nelle forme di “pressus” o di “torculus resupinus” richiesto dalla ritmica gregoriana).

Questa volontà “strutturale” data dall’insieme del’opera, soprattutto all’interno del ciclo serrato dei diciotto “Responsoria” e l’elaborazione interna ai singoli brani con attenzione al significato dialogico della struttura del testo, e poi 1’impianto armonico e 1’intenso simbolismo conferito alle singole voci intese come “personaggi” partecipanti al dramma, ha fatto classificare lo stile del De Victoria come “mistico”. Ma, proprio la elaborazione d’insieme, così corretta nella sua solidità polifonica, così contenuta in rapporto al significato intimo del testo, così controllata all’interno dalla severità austera del canto gregoriano che si pone continuamente come “ memoria” del messaggio da tradurre e da vivere nel rito, la fa una musica che evita le fantasmagorie immaginative, persegue la lucidità del dettato musicale, prosciuga gli elementi simbolici controllandoli anche nella espressione musicale sul rapporto di essi con la “obiettività liturgica”.

In tal modo il genere musicale dell’“Officium Hebdomadae Sanctae” polifonico non ha mai raggiunto vertici tanto drammaticamente espressivi e tanto solidamente formali quanto quello di Tomàs Luis De Victoria.

Fernando-Vittorino Joannes

Tomás Luis De Victoria. Biografia essenziale

Nacque ad Avila in Spagna nel 1548. Ammesso nel coro della Cattedrale, ricevette la sua prima istruzione musicale da Juan Navarro o Bartolomeo Escobedo, già corista della Cappella Sistina. Dopo la muta della voce venne inviato a Roma da intelligenti mecenati che avevano intuito la sua naturale inclinazione per la musica. Nel 1565 entrò come convictor e cantore nel Collegium germanicum ove intraprese gli studi religiosi insieme a quelli musicali..

Nel 1571 fu nominato maestro di cappella del Collegium germanicum, incarico che mantenne fino al 1576. Il 28 agosto del 1575 prese gli ordini minori e nel 1581 entrò nella Congregazione dell’Oratorio fondata da san Filippo Neri. Nel 1583 Filippo II, re di Spagna, lo nominò cappellano dell’imperatrice Maria, sua sorella e vedova dell’imperatore Massimiliano II, ritiratasi con la figlia principessa Margarita nel “Monasterio de las Descalzas de Santa Clara di Madrid”, fu nuovamente a Roma nel 1594 in occasione dei solenni funerali di Giovanni Pier Luigi da Palestrina, al quale, durante il soggiorno romano, era stato legato da profonda amicizia. In quello stesso anno ritornò a Madrid ove morì nel 1611.

L’opera di Tomás Luis De Victoria, insieme a quella di Cristobal de Morales, costituisce il principale monumento della polifonia spagnola; con Palestrina e Orlando di Lasso fa parte della “trinità” della polifonia cinquecentesca, una delle stagioni musicali più importanti di tutta la storia della musica occidentale. Se per numero di composizioni (20 messe, 44 mottetti, numerosi Magnificat, l’Officium Hebdomadae sanctae e l’Officium defunctorum) la sua opera non può competere con quella degli altri polifonisti citati, sicuramente è di pari livello per i profondi valori espressivi dell’emozione religiosa e drammatica.

Fernando-Vittorino Joannes, francescano, è nato a Gavardo (Brescia) nel 1931. Dottore in teologia cattolica e protestante, studioso di religioni orientali, dopo aver partecipato al Concilio Vaticano II in qualità di perito, ha lavorato per vent’anni nell’IDOC, Centro di documentazione internazionale e interconfessionale, con incarichi di collegamento con le Università teologiche protestanti e ortodosse. Tra il 1964 e il 1976 ha diretto per Mondadori la collana di opere saggistiche “IDOC – Documenti nuovi” (52 volumi tradotti in otto lingue); in seguito ha diretto per Rizzoli la collana in 12 volumi “Le grandi religioni”. Tra le sue opere organiche ricorderemo: Per conoscere sant’Agostino, Sinai, L’ebraismo, L’uomo del Medioevo, J. S. Bach il Cantor. Ha collaborato e collabora a quotidiani, riviste e periodici, tra cui, Amica, Tempo, Settegiorni, La Domenica del Corriere, Le Monde de la Musique (con interventi sulla musica religiosa del 1300-1400, di Bach e Mozart). Ha curato speciali serial televisivi sulla storia e archeologia biblica. Padre Joannes è stato docente di Storia della musica presso l’Università della terza età “G. Colombo” di Milano. Per la RAI ha curato  una  importante trasmissione radiofonica dal titolo “Il lamento del giusto sofferente nei Responsori di Don Pietro Allori”. Il testo, che faceva da contrappunto all’esecuzione dei Responsori della Settimana Santa di don Allori da parte del Coro dell’Università Cattolica diretto da Angelo Rosso, è stato pubblicato nel 2008, a cura di Daniele Vinci e Silvano Zucal, su “Limine” (N°2), Collana di Studi Filosofici della Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna

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