Si ripropone qui il testo della commemorazione di don Pietro Allori, nel xxv anniversario della scomparsa, tenuta dal Prefetto della Biblioteca Ambrosiana di Milano mons. Franco Buzzi il 20 agosto 2010, presso il monastero benedettino di San Pietro di Sorres (Borutta—SS).
Franco Buzzi
Desiderio di Dio e mistero cristiano
nella vita e nell’arte di don Pietro Allori
Commemoriamo oggi don Pietro Allori (1925-1985), a 25 anni dalla morte e a 85 dalla nascita1. Lungo il corso della sua vita ci sono stati una guerra, un Concilio Ecumenico (il Vaticano II) e un post-Concilio. La durezza del tempo di guerra ha inciso, oltre che sulla sua gracile salute, anche sulla formazione ascetica e rigorosa di don Pietro. La sua produzione musicale a Gonnesa inizia proprio mentre infuriava il Secondo conflitto mondiale. Infatti le prime testimonianze raccolte nel Catalogo delle sue opere sono datate 1944, quando egli era ancora un seminarista2. Don Allori ha composto brani musicali per quarant’anni consecutivi (1944-1984). Così, dei suoi 60 anni di vita, due terzi li ha trascorsi componendo: la sua è stata una vita interamente musicale e sacerdotale, perché la sua formazione, da ragazzo fino all’anno dell’ordinazione sacerdotale (1951), fu tutta protesa a prepararlo a questo duplice ministero, se duplice può essere detto nel suo caso. Per lui, l’esercizio del ministero sacerdotale ordinario, fatto di catechesi, scuola, amministrazione dei Sacramenti, vita di preghiera e di comunità, per lui tutto questo coincise anche con l’essere musicista a servizio della liturgia e della vita comunitaria, che prevedeva non solo momenti di preghiera, ma anche tempi ricreativi e di svago. Basta scorrere il Catalogo delle sue composizioni musicali, dove sono segnalati complessivamente 1630 brani da lui prodotti, per rendersi conto della varietà dei generi e quindi delle occasioni di vita, per le quali il sacerdote-musicista Pietro Allori predispose le sue musiche.
Nella sua produzione prevale in tutto e per tutto la musica vocale (per un totale di quasi 900 brani), la maggior parte dei quali (circa tre quarti) ha sicura destinazione liturgica. Il resto delle composizioni vocali ha un’altra destinazione, benché molto spesso si tratti di brani musicali di sicuro contenuto e forma religiosa. La destinazione non liturgica contempla, infatti, anche altre occasioni: le cosiddette “accademie”, cioè momenti di cultura musicale che prevedevano esecuzioni di musica corale/polifonica, ma su testi non necessariamente religiosi. Spesso si tratta di brani poetici e di grandi letterati: ricorrono i nomi, per esempio, di Jacopone da Todi, Girolamo Savonarola, Lorenzo il Magnifico, Michelangelo Buonarroti, Vittoria Colonna, Gaspara Stampa, Giovanni Guicciardini, Jacopo Sannazzaro, Giovanni della Casa, Torquato Tasso, Tommaso Campanella, Pietro Metastasio, Alessandro Manzoni, Niccolò Tommaseo, Giacomo Zanella, Giosué Carducci, Giovanni Pascoli, Ada Negri, Giovanni Papini, Angiolo Silvio Novaro, ma anche san Francesco e Dante Alighieri. Sono testi che indicano quanto sensibile fosse l’animo di don Pietro alla poesia pura, capace di stimolare in lui composizioni ispirate: in molti casi è davvero difficile dire se ci muoviamo tra “sacro” e “profano”, quando tanto i testi quanto la musica raggiungono la profondità del cuore umano e attingono ai sentimenti più genuini che esprimono e incarnano la creaturalità dell’essere umano, nella sua forza e nella sua debolezza, nelle sue capacità e nei suoi limiti, ma soprattutto nel suo desiderio di perdono e nella sua nostalgia di infinito e di eternità. In questo caso anche ciò che è profano si tinge di sacralità, la stessa che coincide con l’indelebile dignità di ogni persona nelle manifestazioni della propria umanità autentica.
Ci interessano in particolare le composizioni corali liturgiche. Qui il repertorio è vastissimo. I testi musicati da Allori sono tratti soprattutto dalla liturgia: sono brani liturgici desunti dalle parti proprie della Messa (introito, graduale, offertorio) oppure anche dal Breviario latino (antifone, inni, versetti, responsori). Al fondo di questi testi sta sempre la Sacra Scrittura, perché essi sono per lo più libere elaborazioni di passi biblici. In questo senso don Pietro, come musicista di Chiesa, si è sempre posto a servizio della liturgia e del mistero cristiano in essa celebrato. Si sente nella sue composizioni tutta la sua passione e l’assimilazione profonda dei misteri della vita terrena di Cristo (nascita, passione, morte, risurrezione): mentre la celebrazione del Natale ha inevitabilmente aspetti devozionali molto legati alle varie tradizioni popolari, la grande festa di Pasqua, in particolare tutta la liturgia della Settimana Santa, appare rigorosamente celebrata in senso liturgico: con i vari responsori della feria V in Coena Domini e della feria VI in Passione Domini e molte antifone e responsori in Tempore Passioni, et in Triduo Sacro, tra cui O bone Jesu, Stabat Mater, Jesu Christe, Popule meus, Crucem tuam adoramus, O vos omnes, Tenebrae factae sunt, O crux ave, Pater si vis, Tristis est anima mea, In monte Oliveti, O Domine Jesu Christe, Eripe me, Ubi caritas, Unus ex discipulis meis, Caligaverunt oculi mei. Oltre a queste composizioni propriamente liturgiche, si devono ricordare le Ventisette laudi al Crocifisso (1979), Le sette parole di N.S.G.C. in croce del 1980, in polifonia pura a 4 voci, Le sette parole di N.S.G.C. in croce del 1983 a 4 voci dispari con organo.
Questa insistenza sui temi della passione e, più in generale, della passione e risurrezione di Cristo, dice l’assimilazione profonda a livello di preghiera e di contemplazione cui giunse il sacerdote-musicista Pietro Allori. Illuminato dalla parola di Dio, preso dalla narrazione evangelica, don Pietro è tutto centrato nella passione di Cristo, intendendo in essa il gesto supremo di fedeltà da parte di Dio alle sue creature: creature amate da Dio fino a perdere se stesso nel proprio Figlio, costituito principio di risurrezione per tutti coloro che lo accolgono tramite la fede e l’amore, nella propria vita.
Don Pietro, come sacerdote e musicista della Cattedrale, non poteva barare: non avrebbe potuto trasmettere agli altri, tramite la musica posta a servizio della Parola, ciò che lui per primo non avesse chiaramente e profondamente assimilato con la preghiera e con una vita coerente, vale a dire purificata alla scuola del Vangelo. L’autenticità della sua musica è nata in lui da un ascolto vero, assoluto, puro della Rivelazione di Dio. Tale ascolto puro richiede un autentico silenzio interiore: la pace profonda in cui tutto il mondo del semplicemente e banalmente umano tace, una pace che è conseguita anche tramite la vittoria sulle passioni umane e sul proprio “io”. Occorre veramente una situazione di grande silenzio interiore per poter ascoltare la musica vera, conforme alla realtà vera di Colui che parla nel segreto, attraverso il suo Verbo, con il quale ha fatto/creato tutte le cose: è la stessa esperienza che ci riporta sant’Agostino quando riferisce del dialogo con sua madre a Ostia Antica:
Se tacesse il tumulto della carne, se tacessero le immagini della terra, delle acque e dell’aria, se tacesse il cielo stesso, e se l’anima, tacendo con se stessa, si superasse, astenendosi dai propri pensieri…3
Qui Agostino auspica di poter ascendere fino all’ascolto diretto di Colui che ha creato tutte le cose: solo a solo, senza intermediari… Occorre tendere l’orecchio non alle cose create, ma a Colui che ha fatto tutte le cose, lui solo, l’eterna Sapienza e l’eterna Bellezza, che sta immobile sopra tutte le cose…
Del resto, è tradizionalmente questa l’ascesa (ἀνάβασις) richiesta dalla scuola platonica: occorre salire dalla bruttezza della realtà anche spirituale, anche umana, alla bellezza umana e spirituale, per quanto sempre limitata e parziale, innalzandoci ancora di più verso la Bellezza in sé assoluta, che è sorgente di ogni bellezza, anche del bello musicale. Ecco come un pensatore antico, Plotino, l’ultimo grande speculativo della filosofia greca, vissuto nel III secolo dopo Cristo, ecco come descrive il tumulto dei sensi e quella mancanza di silenzio e di pace in cui cade l’uomo che si lascia andare agli istinti e alla corporeità. La sua è una condizione di bruttezza:
Sia dunque un’anima brutta, intemperante e ingiusta, piena di numerosi desideri e del massimo turbamento, timorosa per debolezza, invidiosa per meschinità, che pensa sì, ma solo a oggetti mortali e vili, sempre falsa, amica dei piaceri impuri, vivente solo della vita delle passioni corporee così da trovare il suo piacere nella turpitudine. E non diremo noi che questa bruttezza è sopraggiunta in lei come un male estrinseco che la sporca, la rende impura e la mescola a grandi mali, in modo che la sua vita e le sue sensazioni non sono più pure?4
Da tale condizione di bruttezza e turpitudine ci si libera con un grande sforzo ascetico di ascensione: occorre, infatti, risalire verso l’alto, con un forte desiderio della propria Origine, il Bene vero, il Bello vero, da cui ogni bene e ogni bellezza traggono origine.
Bisogna dunque risalire verso il Bene, cui ogni anima aspira. Soltanto chi l’ha visto comprende in quale senso io dica che esso è bello. Come bene, esso è desiderato e il desiderio tende a lui; ma lo raggiungono solo coloro che salgono verso l’alto, ritornano a lui e si spogliano delle vesti indossate nella discesa; come coloro che salgono al sacrario dei templi devono purificarsi, abbandonare le vesti di prima e procedere spogli, fino a che, dopo aver abbandonato, nella salita, tutto ciò che è estraneo a Dio, vedano, soli a solo, nel suo isolamento e nella sua semplicità e purezza, l’essere da cui tutte le cose dipendono e a cui guardano e per cui sono, vivono e pensano: egli è infatti causa della vita, dell’intelligenza, dell’essere.
E chi lo vedesse, quale amore e quali desideri non proverebbe, volendo unirsi a lui; e come il suo stupore non sarebbe accompagnato da piacere? Difatti colui che non l’ha ancora veduto può tendere a lui come a un bene; ma colui che l’ha veduto dovrà amarlo per la sua bellezza, sarà riempito di commozione e di piacere e, scosso da salutare stupore, lo amerà di vero amore, riderà della passione che consuma, nonché degli altri amori e disprezzerà le sedicenti bellezze di prima: questo provano coloro che hanno incontrato delle forme divine […] né più ricercano ormai la bellezza degli altri corpi. Che cosa crediamo proverebbe chi vedesse il Bello in sé in tutta la sua purezza, non quello che è composto di carne e di corpo, ma quello che, essendo puro, non è né sulla terra né in cielo? Tutte le “altre bellezze” sono acquisite, mescolate e non primitive, e vengono da lui.
Se dunque si vedesse quel Bello, che dispensa la bellezza a tutte le cose e la dà rimanendo in sé senza ricevere nulla in sé, e si restasse in questa contemplazione gioendo di lui, di quale altra bellezza si avrebbe bisogno? Esso è difatti la vera e prima bellezza, che rende belli e amabili i suoi amanti. Sorge allora per l’anima la più grande e suprema lotta nella quale essa applica tutto il suo sforzo per non rimaner fuori della più bella delle visioni, giungendo alla quale essa è felice per la contemplazione di quella gaudiosa visione, mentre colui che non può giungervi è il vero infelice. Difatti non è infelice colui che non può vedere bei colori o bei corpi, e nemmeno è infelice colui che non ha il potere, le magistrature o la regalità; infelice è colui che non può possedere [il Bello], ed egli solo: per ottenerlo è necessario lasciar da parte i regni e il dominio di tutta la terra, del mare e del cielo, se, abbandonando e disprezzando queste cose, ci possiamo volgere verso di lui e vederlo.5
Questo discorso, tutto platonico, importante per lo slancio ascetico e liberatorio dell’anima verso l’alto, ci aiuta a comprendere lo sforzo ascetico dell’uomo don Pietro Allori. Nondimeno questo discorso “platonico” va certamente completato, e in questo senso anche corretto, con l’orientamento propriamente cristiano.
Il desiderio di Dio da parte dell’uomo, desiderio che sale dal basso verso l’Alto e che si accompagna o, meglio, è costituito dal movimento dell’ἔρως platonico, che dal bisogno è mosso a cercare la propria sazietà dal basso verso l’alto, a un certo punto si incrocia e si salda con il movimento divino che dall’alto scende verso il basso: è il movimento, non più dell’ἔρως, ma dell’ἀγάπη in senso cristiano, in senso propriamente giovanneo: Dio è amore, amore che crea e amore che redime le sue creature ferite e perdute, abbruttite dalla colpa del peccato e accecate dal male.6
L’esperienza di Bellezza di don Allori, musicista cristiano e prete, si colloca a questo livello, a questa altezza: il silenzio di Dio si rompe ed Εgli si rivela come parola d’amore, parola che è amore, che dà senso e sapore pieno a tutta la realtà, a ogni esperienza umana: ὁ Θεὸς ἀγἄπη ἐστίν, καὶ ὁ μένων ἐν τῇ ἀγάπῃ ἐν τῳ Θεῷ μένει, καὶ ὁ Θεὸς ἐν αὐτῷ μένει, «Dio è amore e chi dimora nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui» (1Gv 4, 16).
La musica di don Allori partecipa della gioiosa, intensa, irremovibile scoperta che Dio si muove incontro all’uomo e che questo abbassamento di Dio è la consolazione sicura alla quale possiamo abbandonarci. La musica che nasce da questa ricerca di Dio e da questo “rimanere in Dio”, da Lui ricercati e in Lui accolti, ha in sé la forza dell’amore che Dio ha per le sue creature.
Ho accennato al Concilio Ecumenico Vaticano II e al post-Concilio. Durante gli anni del Concilio (1962-1965) la produzione sacra di Allori è continua: le fonti di ispirazione e i mezzi espressivi a cui ricorre sono sempre i testi liturgici, il gregoriano, la polifonia classica, l’uso praticamente esclusivo della lingua latina. Il 1965 è contrassegnato da alcune composizioni liturgiche in lingua italiana: sono canti (Introito, Offertorio, Santo e Comunione) appositamente composti per la Messa in italiano: a una voce, a tre voci miste e a quattro voci. Ricordo anche che tra il 1966 e il 1976 (un decennio) don Allori compose ben 19 messe complete sui testi dell’ordinario della messa (Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus, Agnus Dei), delle quali 15 in lingua italiana, 3 in lingua latina e una in lingua mista, italiano e latino. Nel periodo precedente, dal 1947 al 1962 aveva composto altre 11 messe sull’ ordinario, in lingua latina. Ma tra il 1972 e il 1978 si constata una specie di “sospensione”: Allori non smise del tutto di comporre per la liturgia, ma la sua produzione di allora appare estremamente rarefatta. Era il tempo dell’uso della chitarra elettrica in chiesa. Fu il tempo in cui – mal interpretando il discorso dell’actuosa participatio del Concilio Ecumenico Vaticano II7 – la vivacità della partecipazione giovanile, spesso di modestissimo valore musicale per non dire, talvolta, di caduta nell’assoluta banalità, sacrificò l’autentica partecipazione dei fedeli alla celebrazione dei sacri misteri. Con fine ironia e col sorriso sulle labbra don Allori confessò di trovarsi a essere in quel tempo «un organista senza organo e un direttore di coro senza coro»8.
Furono quelli gli anni in cui egli si dedicò soprattutto alla musica strumentale extraliturgica, per pianoforte e per chitarra; compose molto, certo, ma con intento prevalentemente didattico. Educò sempre i giovani al bello, ai sentimenti delicati e forti, con ritmi gioiosi e pensosi. Con le sue composizioni e il suo insegnamento educò i giovani alla moderata estroversione e all’esercizio di quell’introversione necessaria a trovare se stessi.
In ogni caso, a partire dal 1979, fino alla fine della sua vita, egli riprese di gran lena a comporre ancora sui testi classici della liturgia latina, mettendo a frutto una maestria polifonica che aveva perfezionato, arricchito e approfondito nel corso di 40 anni di esercizio.9
Infatti dopo i primi 20-25 anni dalla chiusura del Concilio si cominciò a capire che l’ebbrezza della novità, o meglio del rinnovamento, aveva spesso imboccato vicoli ciechi anche nel campo del rinnovamento liturgico, in particolare musicale.
Si cominciò a comprendere che l’actuosa participatio10, opportunamente caldeggiata dal Concilio, poteva benissimo sostanziarsi in momenti di silenzio da parte dell’assemblea: un silenzio che fa spazio a un ascolto profondo e quindi mette in gioco molta attività e partecipazione attiva da parte di chi vuole seriamente ascoltare, recepire, reagire con tutto se stesso alla proposta spirituale e musicale che gli viene offerta, anche, poniamo, dal canto polifonico e gregoriano eseguito dalla schola cantorum, o dagli intermezzi di musica d’organo. In un libro di Joseph Ratzinger, uscito quest’anno, ho trovato un’osservazione che fa al caso nostro, dove egli afferma:
è un dato di fatto che esistono non poche persone che sanno meglio cantare “con il cuore” che “con la bocca”, ma alle quali il canto di coloro, che hanno il dono di cantare pure con la bocca, può veramente far cantare il cuore, in modo che in loro esse cantano, per così dire, anche personalmente e l’ascolto riconoscente diventa, insieme con il canto dei cantori, un’unica lode di Dio. È proprio assolutamente necessario costringere alcuni a cantare nel modo in cui non sono capaci e così rendere muto il cuore a loro e agli altri? Ciò non dice nulla contro il canto dell’intero popolo credente, che ha la sua funzione irrevocabile nella Chiesa, ma dice tutto contro un’esclusività che non può essere giustificata né dalla tradizione né dalla cosa in se stessa.11
Dalla scorsa veloce alle composizioni liturgiche di don Allori, credo sia risultato evidente per tutti noi quanto questo sacerdote musicista sia stato in grado di essere all’altezza dei tempi: docile alle richieste del Concilio, ma insieme capace di camminare nel solco di quella grande tradizione musicale che il Concilio non intese mai rinnegare.
Ritengo che per l’uomo, per il cristiano, per il sacerdote, per il musicista don Allori la musica sia stata sinonimo di bellezza creata da Dio. Credo che anch’egli abbia potuto fare quella stessa esperienza di cui ci parla Giovanni Climaco, nella sua Scala Paradisi, là dove egli sembra commentare il famoso detto di Paolo nella sua Lettera a Tito: πάντα καθαρὰ τοῖς καθαροῖς, omnia munda mundis, «tutto è puro per chi è puro» (Tito 1,15), poi anche di manzoniana memoria, per chi ricorda le parole di padre Cristoforo a fra Fazio, la notte in cui egli accolse in chiesa le due donne, Agnese e Lucia.12
Giovanni Climaco racconta di quel monaco che vedendo un corpo bello, assolutamente avvenente, incomincia a parlare meravigliosamente di Colui che l’ha creato, cioè di Dio; prendendo occasione da tale visione e partendo dalla contemplazione di quest’unica bellezza, viene rapito dall’amore di Dio, profondendosi in lacrime. È sorprendente vedere come, mentre uno potrebbe essere indotto a cadere nel peccato e nella perdizione, un altro possa essere rapito in Dio e raggiungere il premio celeste. A chi capita questo – commenta Giovanni Climaco – guidato dal suo stato religioso e dalle molte lotte condotte su di sé, bisogna dire che, pur non essendo ancora risorto, già partecipa della condizione della futura risurrezione dei corpi: ὁ τοιοῦτος ἀνέστη ἄφθαρτος πρὸ τῆς κοιωὴς ἀναστάσεως, is resurrexit incorruptus ante communem resurrectionem, «costui è risorto incorrotto prima della risurrezione che ci riguarderà tutti insieme».13
Allo stesso modo, continua Giovanni Climaco, occorre saper usufruire delle melodie e dei cantici. Infatti, dice, coloro che amano veramente Dio vengono indotti all’ilarità, cioè fino alla gioia serena e gioviale, e all’amore per Dio da tutte le canzoni, siano esse sacre o profane, e sono da esse commossi fino alle lacrime di gioia e di amore. Questo animo puro e questa capacità di elevare l’animo alla gioia e all’amore di Dio si incontrano ascoltando le composizioni di don Allori, ieri come oggi!
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